Direttiva Ue (35/2000) alle imprese:
pagamenti
entro 30 giorni per le transazioni e le collaborazioni
Riguarda anche le professioni liberali
(compresa quella di perito industriale)
La direttiva ha il
requisito della immediata applicabilità e può essere fatta valere dai singoli
davanti al giudice - Tassi di interesse e risarcimenti per colpire le imprese
che non pagano
Norme europee per disciplinare i ritardi nei pagamenti delle
transazioni commerciali e dei servizi resi dai liberi professionisti. Con la
direttiva 35/2000 del Parlamento e del Consiglio d'Europa, pubblicata l'8
agosto 2000 nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee e in vigore
dallo stesso giorno, il Parlamento europeo e il Consiglio dettano le regole per
dirimere controversie tra debitori e creditori nel caso di mancato pagamento
dopo la consegna della merce. Gli Stati membri, in base alle nuove norme,
dovranno assicurare il pagamento degli interessi, a decorrere dal giorno
successivo alla data di scadenza. E garantire uniformità di trattamento nei
vari stati membri. Il creditore avrà diritto di esigere dal debitore un
risarcimento per tutti i costi di recupero sostenuti, nel rispetto dei principi
di trasparenza e proporzionalità del debito. Tali costi di recupero potranno
essere fissati, nel loro livello massimo, dagli Stati stessi. Per recepire la direttiva c'è tempo fino
all'8 agosto 2002. Dopo
quella data, per i due anni successivi, scatteranno i controlli europei:
saranno verificati gli interessi legali, e l'effettiva conformità delle
normative nazionali alla disciplina europea.
Dopo anni di tormentati dibattiti, taglia il traguardo la
direttiva europea contro i ritardi nei pagamenti commerciali. La normativa stabilisce un termine massimo
di 30 giorni per il saldo della fattura (qualora una scadenza non sia concordata tra le parti),
fissa interessi di mora automatici e impone ai Governi di fornire al creditore
un titolo esecutivo "di norma entro 90 giorni" se la liquidazione non
avviene a termine".
Obiettivo della direttiva è limitare il vizio diffuso di
Pubbliche amministrazioni e aziende di ritardare il saldo delle fatture. Una
cattiva abitudine particolarmente diffusa in Italia (nella Ue solo Grecia e
Portogallo registrano tempi medi di insolvenza peggiori). Ma la direttiva
fissa anche un traguardo ambizioso per il Governo italiano, imponendo
meccanismi efficienti e poco costosi per il recupero credito, in grado di
arrivare a un provvedimento esecutivo entro tre mesi. Questa direttiva è un
altro vincolo esterno che aiuterà l’Italia ad essere più virtuosa. La sua
approvazione è un fatto positivo che aiuterà ad eliminare la consuetudine un
po’ levantina di pagare in ritardo e imporrà di essere più competitivi in
Europa.
La direttiva prevede che, dal giorno successivo alla
scadenza concordata dalle parti o — se questa non c’è — 30 giorni dopo il
ricevimeno della fattura, scattino interessi di mora a favore del creditore
pari al tasso di riferimento della Banca centrale europea, aumentato di sette
punti percentuali (salvo diverse disposizione del contratto). A meno che il
debitore non sia responsabile del ritardo, "il creditore ha il diritto di esigere un risarcimento
ragionevole per tutti i costi di recupero sostenuti a causa del ritardo". Per alcune categorie di contratti, i
Governi potranno elevare fino a 60 giorni il periodo che fa scattare gli
interessi, a patto che si tratti di un termine inderogabile con un tasso
d’interesse sensibilmente superiore a quello legale di mora sopra stabilito.
Gli Stati vengono poi chiamati a fornire un titolo esecutivo
"di norma entro 90 giorni di calendario dalla data in cui il creditore
ha presentato un ricorso o ha proposto una domanda dinanzi al giudice o altra
autorità competente, ove non siano contestati il debito o gli aspetti
procedurali". Anche le professioni liberali (compresa quella di perito
industriale, ndr) vengono assoggettate alla direttiva, senza tuttavia obbligare
gli Stati ad equipararli alle imprese.
La
direttiva ha il requisito della immediata applicabilità. "In adesione ai principi affermati
dalla Corte costituzionale con sentenze n. 170 del 1984, 113 del 1985, 389 del
1989 e 168 del 1991, deve ritenersi che il requisito dell'immediata
applicabilità della normativa comunitaria nel territorio dello Stato sussista
non solo per i regolamenti ma anche per le situazioni risultanti da sentenze
interpretative della Corte di giustizia delle comunità europee e per le direttive
rivolte agli Stati membri, qualora queste siano, dal punto di vista
sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise. In presenza di tali
requisiti, le direttive possono essere fatte valere dai singoli davanti al
giudice italiano nei confronti dello Stato (sia che quest'ultimo non le abbia
tempestivamente recepite, sia che le abbia recepite in modo inadeguato), al
fine di ottenere la disapplicazione della norma di diritto interno ad esse non
conforme. Il giudice, a fronte di una tale istanza di disapplicazione, può
provvedere direttamente ovvero rimettere la questione alla Corte di giustizia
ai sensi dell'art. 177, comma 2 del trattato istitutivo della Cee, soluzione,
quest'ultima, che è peraltro obbligatoria, ai sensi del comma 3 del citato art.
177, per la Corte di cassazione, sempre che il precetto recato dalla norma
comunitaria non sia così chiaro da non lasciare alcun ragionevole dubbio sulla
sua interpretazione (Cass. pen., sez. III, 1 luglio 1999, n. 9983; Riviste:
Riv. Pen., 1999, 848).